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19 Aprile 2024 / 11:33
Alla prova dei costi

 
Banca

Alla prova dei costi

di Maddalena Libertini - 12 Gennaio 2012
I dati dell’Osservatorio ABI Costing Benchmark 2011 fotografano una realtà a più velocità rispetto al parametro cost/income. Maria Luisa Giachetti dell’Ufficio Analisi Economiche ABI analizza le strategie delle banche con le migliori performance
Costi & Business è l’occasione scelta dall’ABI per rendere pubblici i risultati dell’Osser vatorio Costing Benchmark 2011. Maria Luisa Giachetti, dell’Ufficio Analisi Economiche ABI, spiega a Bancaforte quali scopi si propone questa analisi e i più significativi risultati emersi.
Qual è l’obiettivo di Costing Benchmark 2011?
Quest’anno siamo partiti da una frase di Mario Draghi, allora Governatore della Banca d’Italia, che indicava le possibili strategie per le banche per il contenimento dei costi e il recupero dei profitti: “razionalizzare le reti di vendita, estendere e affinare l’uso della tecnologia, semplificare le strutture produttive, cedendo attività non strategiche”. Draghi parlava al futuro, ma a noi interessava verificare se esistevano realtà in Italia che avevano già ottemperato a questi tre paradigmi e quali risultati ne avevano riportato.
E le avete trovate?
Ci sono e i risultati ottenuti dimostrano che la loro strategia è stata premiante.
Quante banche sono coinvolte nell’indagine?
Il campione sconta una numerosità bassa, si tratta di 43 osservazioni, dovuta al fatto che le banche si stanno fondendo tra loro e i dati arrivano aggregati. Resta inalterata invece la rappresentatività a livello di quote di mercato. Per suddividere in quattro cluster il campione si è preso a riferimento quello che in questo frangente ci è sembrato il dato più rilevante, il rapporto cost/income 2010. Il primo cluster, il più performante, è composto da 9 banche abbastanza piccole che messe insieme rappresentano l’8% del campione. Ci sembrava interessante provare a identificare le determinanti che hanno trainato il primo cluster a questi risultati. Il secondo cluster, che comprende dieci banche, rappresenta circa l’85% e registra dei comportamenti ancora buoni. Sono essenzialmente capogruppo o componenti di gruppo, cioè non ci sono banche indipendenti, e sono molto spinte sull’estero. L’apertura a livello internazionale sembra quindi favorire alcuni risultati, ma frenarne altri. Nel primo cluster ci sono banche con comportamenti molto virtuosi e banche nella media. Il secondo cluster invece è più compatto. Possiamo dire quindi che le grandi banche stanno tenendo comportamenti simili. Seguono il terzo e il quarto gruppo composti rispettivamente da 15 e 9 istituti, tutti piccoli.
Cosa è emerso?
Per prima cosa si è visto che chi aveva un cost/income migliore aveva anche un ottimo Roe. Il primo cluster, infatti, registra un Roe del 7,8%, laddove secondo e terzo gruppo si attestano sul dato medio di un Roe vicino al 4% e il quarto arriva a toccare valori negativi. Dalla composizione del conto economico è emerso che il primo cluster ha un peso del margine di interesse rispetto a quello di intermediazione superiore agli altri, quindi apparentemente sembrerebbero banche tradizionali. Tuttavia c’è una componente significativa anche dei ricavi da servizi composti perlopiù da negoziazione, titoli, valute e derivati. Mettendo insieme queste due informazioni la fotografia che ne risulta è di banche che sono riuscite a trovare il giusto connubio tra tradizione e innovazione, perché hanno saputo conservare i clienti tradizionali, ma anche innovare puntando sui nuovi prodotti. Se da una parte hanno registrato una buona tenuta delle commissioni derivanti dai conti correnti aumentando il numero di rapporti, dall’altra sono le uniche che hanno avuto un incremento significativo dei ricavi da negoziazione. Quindi possiamo dedurne che hanno conservato il loro parterre di clienti abituali, integrandolo con nuovi e innovando, in aggiunta, sul comparto dei servizi.
C’è un dato che vi ha particolarmente colpito?
La composizione del personale del primo cluster, perché è del tutto atipica, con molti dirigenti e quadri del 3° - 4° livello. Sono quelli che costano di più, ma evidentemente quelli che portano risultati, considerato che la produttività delle banche di questo primo gruppo è decisamente superiore rispetto a quelle appartenenti al terzo e quarto cluster, dove invece si riscontra un livello altissimo di terza area. Il primo cluster ha poi un ottimo livello di part-time e un alto numero di contratti atipici, spesso ragazzi con lauree e master di prestigio impegnati a breve termine in stage, con una base culturale forte e soprattutto una diversa motivazione.
Rispetto alle aree di business?
Il 40% del margine di intermediazione del primo cluster è realizzato dallo sportello tradizionale, mentre il 16% dai servizi operativi e il 34% dalle business unit, cioè dagli uffici che si occupano di finanza, credito, presidio del mercato. Il cluster con le performance peggiori ha business unit praticamente inesistenti. Il che ci fa porre una domanda: il collega allo sportello da chi viene supportato se non ha dietro nessuno?
Cosa si può osservare in merito alla rete distributiva e alla multicanalità?
Il primo cluster ha più del 40% di filiali fino a 3 dipendenti e nessuna oltre i 50, sono quindi filiali locali, piccole, leggere con costi bassi di locazione e manutenzione. Lavorano su territori limitati con attenzione alla richiesta del cliente, facendolo crescere sottoponendogli le innovazioni un passo alla volta e senza perdere quello che avevano di tradizionale nella banca di riferimento. Rispetto alla multicanalità è emersa un’osservazione interessante: dai dati rilevati sembra più vantaggioso specializzarsi su un singolo canale, utilizzandolo appieno in modo integrato. È la scelta fatta da 3 delle 9 banche del primo cluster. Chi ha spinto di più sulla multicanalità non sta ottenendo i risultati sperati, ma sappiamo che ci vuole tempo per la redditività di questi strumenti. Per quanto riguarda internet, lo utilizzano bene solo il 15-25 % dei clienti, quelli più evoluti, ma che generano volumi importanti. È quindi ancora un canale d’élite, anche se vi transita quasi il 50% dell’ammontare degli ordini nazionali.
Come sta andando l’outsourcing?
C’è ancora molto da fare sull’outsourcing perché sono ancora poche le aziende che riescono a trovare risultati tangibili: si esternalizza qualcosa non per fare ricavi, ma per togliere incombenze organizzative. Ci sono ancora pochissime operazioni di joint venture in Italia mentre potrebbero comportare strategie di razionalizzazione. Forse i tempi non sono ancora maturi, non si sta sfruttando a pieno questo strumento. Le aziende specializzate si stanno muovendo molto bene, ma solo ora le banche stanno iniziando a capire che si può fare business anche con l’outsourcing e cosa se ne può trarre. Sulle alleanze strategiche si è fatto addirittura qualche passo indietro.
A conclusione delle analisi i tre paradigmi iniziali, razionalizzare, affinare, semplificare, sono la strategia giusta per le banche?
Chi li ha adottati ha ottenuto realmente dei risultati. Sarebbe quindi opportuno, in maniera graduale e senza troppi impatti sulle strategie organizzative, intraprendere questa strada.
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