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28 Marzo 2024 / 19:20
Cerco uno startupper da 20 milioni di euro
Cerco uno startupper da 20 milioni di euro
Da IGI Investimenti un pacchetto di fondi importante per sostenere sviluppatori di software innovativi nel settore dei pagamenti, tra virtualizzazione e mobile access. Il Ceo Giuseppe Incarnato traccia il profilo ideale e guarda al Salone dei Pagamenti come a un terreno fertile per fare scouting …
Mai come in questo giro di anni il settore dei pagamenti ha avuto così fame di innovazione e rappresenta per start-up tecnologiche, software house e sviluppatori un Eldorado dalle mille opportunità. Il triangolo magico all'interno del quale si compiono i giochi è quello disegnato da tre temi cardine: virtualizzazione delle transazioni, app e mobile come porta di accesso, acquisizione e gestione di anagrafiche sempre più mirate e ricche rese possibili dalla pervasività di social e over the top tecnologici e dalla nostra dipendenza sempre più stretta dallo strumento-smartphone. Un triangolo che richiede sistemi sempre più sofisticati di sicurezza, altro settore chiave di sviluppo. «Una start-up che sviluppi software capaci di portare anche solo un pezzettino di innovazione in questo ambito, è una gallina dalle uova d'oro».
A dare le coordinate di questo scenario è Giuseppe Incarnato, Ceo di IGI Investimenti , investitore industriale con un portafoglio diretto di 80 milioni di euro e leader di mercato nel settore degli investimenti di private equity in start-up italiane nelle fasi di pre-seed, seed e first stage. Uno che quando si parla di start-up tecnologiche è capace di sganciarsi dalla mistica - «che non paga, a livello di investimento con logica industriale», dice - del giovane startupper capace di partorire l'idea geniale e mira al sodo: sviluppo di software innovativo nell'ambito dei sistemi di pagamento secondo la logica nuova, e imprescindibile, del creare soluzioni che possano vivere «in simbiosi» con i grandi sviluppatori come Facebook, Amazon, Google, Apple, «che possiedono le anagrafiche e sanno come far fruttare il legame tra mobile e transazioni».
Avete messo sul piatto 20 milioni di euro da investire sulle idee giuste. Boutade o realtà?
Confermo, abbiamo stanziato 20 milioni da investire in start-up impegnate nel segmento dei pagamenti, che significa sia sistemi di pagamento innovativi, sia software per la sicurezza delle transazioni. Quella su cui siamo concentrati in particolare attraverso l'attività costante di scouting che facciamo sul campo - e il Salone dei Pagamenti sarà un'ottima occasione per incrociare realtà potenzialmente interessanti - è la frontiera della virtualizzazione dei sistemi di pagamento.
Qual è il recinto all'interno del quale farsi venire questa «idea giusta»?
La prospettiva verso cui si sta andando, velocemente, è quella della fine della fisicità in tutti i processi di pagamento e prelievo del contante. L'obiettivo è la virtualizzazione dell'accesso: arrivare a un solo codice alfanumerico di 8 elementi per accedere a tutti i servizi necessari, dal prelievo al pagamento, senza più l’uso della plastic card, potrebbe rappresentare una semplificazione per l'utente. Innovazioni come il Virtual Pos di Intesa Sanpaolo e la V Pay di UniCredit, solo per citare due casi recenti, fanno capire che si sta andando verso questa nuova direzione: il mercato di start-up, software house, ecc. che inventano e lavorano sulla virtualizzazione dei pagamenti è il nostro bacino di investimento.
Le start-up italiane hanno possibilità in questo campo?
Gli sviluppatori italiani, abituati a lavorare guardando alle banche e ai circuiti di pagamento "tradizionali" come destinatari delle loro soluzioni, ragionano ancora troppo nella logica del software proprietario, mentre oggi l'innovazione passa da sistemi di pagamento evoluti capaci di identificare i clienti. È quello che fanno i big tecnologici, i social network, le grandi piattaforme di e-commerce. Oggi, in una transazione il dato sensibile più importante non è il numero della carta di credito del cliente, ma i suoi dati anagrafici, le sue abitudini d'acquisto. Le start-up che lavorano nel settore dei sistemi di pagamento devono entrare in questa logica.
Perché coltivare start-up in Italia anziché farsi un giretto nel mondo e trovare l'investimento giusto a San Francisco o a Singapore?
Perché i sistemi di pagamento, dal punto di vista dei vincoli legislativi e di regolamenti, sono un settore "maledettamente nazionale": antiriciclaggio, regolamenti sulla movimentazione del contante, ecc. È un sistema chiuso, secondo molti il più complesso e cavilloso del mondo: difficilmente una soluzione sviluppata da una software house straniera ha le caratteristiche necessarie per essere compatibile con il sistema italiano. Per questo è più facile che le soluzioni nascano all'interno dei confini. Vale piuttosto il contrario: se una start-up italiana sviluppa software che vanno bene per l'Italia, può avere un grande futuro in tutto il mondo. In quest'ottica, per un investitore scommettere su una realtà italiana può essere molto remunerativo.
Quali sono i modelli cui prendere spunto nel mondo?
Per tutti, il benchmark di riferimento è il modello australiano, dove già la virtualizzazione è realtà corrente. Il portafoglio è ridotto a un codice alfanumerico con cui è possibile compiere tutte le operazioni di pagamento e prelievo.
Qual è l'ammontare dell'investimento necessario per consentire a una start-up promettente di esprimere il proprio potenziale?
Noi ragioniamo su un investimento di 1/1,5 milione di euro, ticket che dovrebbe consentire a una realtà di sviluppare almeno un pezzo di questa "catena" di innovazione. Pezzettino che già significherebbe un ritorno, in termini di guadagno, molto consistente per una start-up.
Quanto vi aspettate come ritorno, e in quanto tempo, da una start-up su cui decidete di investire?
Noi siamo un fondo di natura industriale, e quello delle tecnologie legate ai pagamenti è un settore ad alto tasso di crescita, per cui ci possiamo aspettare un ritorno di 24-36 volte l'investimento, nel giro di 18 mesi: in media per la messa a punto di software in questo campo necessitano 3 mesi per l'analisi funzionale, 3 mesi per lo sviluppo, 3 mesi per il beta test. Dopo 9 mesi il software è operativo e dopo altri 9 ci aspettiamo che cominci a rendere.
Qual è il profilo dello startupper che guardate?
Esiste ancora il mito del giovane ventenne un po' nerd che fa la scoperta del secolo?Questa è, appunto, mitologia. Lo startupper che a noi interessa è una persona che ha maturato 15/20 anni di esperienza nel comparto. Quindi è sicuramente più un 40enne che un 20enne. Noi investiamo su expertise concrete, perché due sono le cose. Se hai 20 anni, sei un genio e hai fatto la scoperta del secolo, non hai bisogno di noi, fai volare la tua azienda anche senza il nostro aiuto. Se invece hai 20 anni e ti metti a fare lo startupper - come succede in una grandissima parte dei casi - perché hai concluso l'università, hai mandato in giro il tuo curriculum, e fai l'imprenditore a tempo perso nell'attesa di un'assunzione in qualche grande azienda, allora per noi non rappresenti un investimento valido. Le statistiche dicono che 7 giovani startupper su 10 abbandonano il loro progetto prima che sia compiuto. Facciamoci delle domande...
Più che ai giovani startupper poco convinti, la critica viene sempre portata a chi dovrebbe sostenerli. Questione ricorrente è quella della mancanza in Italia di un venture capital vero, che dia ossigeno alle start-up …
Io credo che anche questo mercato si muova secondo la logica della domanda e dell'offerta. Forse, se c'è poca offerta di capitali, è perché anche la domanda - quella seria, credibile, di cui ho detto sopra - è piuttosto bassa. Poi, se guardiamo ai numeri, è vero che nel nostro Paese i fondi di private equity disposti a investire in questo settore sono pochi. Consideriamo che gli industrial funds in totale non sono più di una decina, noi compresi. Però la massa amministrata complessivamente è di circa 6 miliardi; i capitali da investire, insomma, ci sarebbero.
Quindi cosa manca?
A mio parere è una filiera di sostegno alle start-up, perché per costruire un tessuto di sviluppo non basta il soggetto che ha un'idea e il private equity che finanzia. Il sistema bancario ha spazio per fare in maniera importante la sua parte, formando al proprio interno persone capaci di valutare le potenzialità delle start-up - in Inghilterra le banche hanno credit department specializzati in start-up - e regolamenti che consentano di finanziarle. Certo che se per accedere al credito un'impresa deve avere almeno 36 mesi di attività, le start-up sono tagliate fuori in partenza. Un ruolo importante devono giocarlo anche i media che continuano a trattare le start-up solo come fenomeni sporadici, ma faticano a fare una narrazione seria del fenomeno. Il Governo qualcosa ha fatto e sta facendo: le agevolazioni fiscali ed energetiche, la promozione di incubatori, le facilitazioni per l'installazione di campus che facciano da ecosistema alle start-up. L'arrivo di Apple a Napoli, Google a Roma con l'Università Luiss, ma anche il Politecnico di Milano e di Torino sono buone pratiche che fanno ben sperare.
Qual è a suo parere il ruolo delle banche in questo grande gioco?
Le banche si trovano oggi nella necessità di rivedere radicalmente il proprio business model; ci sono tanti nuovi attori che stanno colonizzando quei territori che fino a poco tempo fa erano propriamente "bancari", e di fronte a questi newcomer molte banche sono rimaste spiazzate. Il cambiamento, la "payvolution" come dice il claim del Salone, è in atto e va affrontata con fiducia e capacità di innovazione. L'Italia è ancora un Paese bancocentrico. Nei sistemi di incasso e pagamento le banche hanno un ruolo tutt'ora centrale: non dimentichiamo che, tolto il 6% di transazioni dell'e-commerce, c'è in Italia ancora un 94% di transazioni "fisiche" che passano attraverso un conto corrente. Ovvero, quel data mining di cui tanto si parla, e su cui tanti investono, le banche ce l'hanno già in casa; devono sapere metterlo a frutto. I nuovi operatori entrati in questo campo, i big tecnologici in testa, usano una strategia chiara ed efficace: partono dal B2B per arrivare al B2C. Le banche devono sapere mettere in relazione, integrare questi campi. L'industry bancaria, e quella dei sistemi di pagamento in particolare, deve difendersi evolvendo.
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