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Tutti social appassionatamente

 
Fintech

Tutti social appassionatamente

di Ildegarda Ferraro - 19 Settembre 2012
Tra rischi e opportunità, la corsa a essere sui social media contagia chiunque. Di che cosa tener conto per starci consapevolmente
Sembra quasi non se ne possa più fare a meno. Le spinte a fare il passo per esistere sui social media aumentano. E diventa difficile non farsi contagiare sia da un punto di vista privato, accettando di entrare su Facebook invitati da un vecchio compagno di scuola, sia professionale, decidendo di cominciare ad esistere su Twitter. Ma pensarci conta e fare una strategia, sia pure minima, fa la differenza.

Social, come puoi farne a meno?

Sembra proprio che non si possa essere fuori dal circuito. E così alla ricerca di in impegno interessante la giovane esperta di comunicazione, a colloquio con la nota consulente, si sente dire che è determinante avere una buona carta da giocare in termini di esperienza sui social media. E questo non perché la consulente sia una fanatica, ma perché le aziende chiedono un profilo social. Ho amici che lavoravano per uffici stampa, impegnati ora nel social marketing. E anche chi non ha esperienza sente di dover fare il grande salto. Lavorare o meglio cercar lavoro ormai non può prescindere dai social media. Anche solo per provare, è ormai un must aprire un profilo su Facebook e magari collegarlo a Twitter.
Gli amici si connettono in rete sui social. Ho compagne della scuola elementare che mi hanno braccato dopo quarant’anni e amici di liceo che si ritrovano costantemente, mantenendo i contatti su FB, come gli addict chiamano Facebook. E poi sempre più spesso un fidanzato o una fidanzata viene dalla rete e ormai non è un caso isolato avere amici che si sposano dopo essersi trovati su un social network.
Un utente su sei in Italia inizia la propria giornata connettendosi a Facebook. E non è poco, visto che meno di due su dieci comincia andando su di un motore di ricerca. E se lo dice la Doxa il trend va tenuto in attenta considerazione (Web 2.0 Facebook, il primo gesto degli italiani). D’altra parte il social media aiuta a orientarsi. La rete è diventata enorme, indirizzi quasi illimitati: dai vecchi 4,3 miliardi ai futuri possibili 340 trilioni di trilioni di trilioni, insomma 34 seguito da 37 zeri (leggi qui). E in questi spazi sconfinati ci si può sentire persi.
La pubblicità, già acquartierata su Facebook, scopre Twitter e lo testa (leggi qui). Per necessità o virtù siamo tutti più social. E il circuito si autoalimenta. E così cominciano ad apparire ricerche su ogni aspetto possibile, anche sul che si è più produttivi e in carriera grazie ai social network (leggi qui). L’espansione è costante, grazie anche alla diffusione virale.
E poi c’è questa idea di fondo di democrazia diretta, di partecipazione popolare che è parte dell’immaginario, ci si sente di far parte di un laboratorio di e-democracy. In fondo fa anche proseliti la possibilità di infierire sul potente, di insultarlo pubblicamente con ritorno. Il potere è dei follower. I leader sono sotto costante scacco da parte di chi li giudica minuto per minuto (leggi qui).

Oltre le opportunità i rischi

Insomma l’aria che tira è molto social, anche perché effettivamente i vantaggi ci sono. L’essere connessi, mantenere una rete di relazioni conta. Ma i rischi sono altrettanto evidenti.
E così stare su Facebook vuol dire essere costantemente in una casa di vetro. Una bugia può essere facilmente smascherata, con piccole e grandi conseguenze. Se qualcuno per esempio annulla un incontro di lavoro, giustificandosi con seri problemi, e poi posta una foto al mare può andare incontro a evidenti pesanti reazioni. Lampanti i rischi nella vita professionale, come in quella privata, nella messa a disposizione di info personali. E questo senza arrivare al furto di identità.
E poi c’è tutta la casistica degli effetti boomerang anche solo di un messaggio. Ha innescato una lunga polemica il tweet con cui Valèrie Trerweiler, compagna di François Hollande, si è schierata pubblicamente con l’avversario di Ségolène Royal, per molti anni partner e madre dei quattro figli di Hollande (leggi qui). La miccia ha avviato un dibattito che è andato avanti per giorni (leggi qui) e ancora non è del tutto sopito.
Una campagna si può trasformare in un incubo. E così all’invito di McDonald’s di spedire aneddoti hanno risposto in molti, usando l’hashtag #McDStories per invadere il web di insulti e parolacce (leggi qui) . Gli scivoloni cominciano a essere casi analizzati con cura. Così il passo falso del marchio di abbigliamento Patrizia Pepe, che per la foto di una modella quasi anoressica ha scatenato le reazioni della rete e la sostanziale rissa con chi aveva il compito di rispondere sui social media (leggi qui). La conclusione è stata le pubbliche scuse del brand (leggi qui) ma non sottovoce, chiaro e forte nero su bianco in rete. Gli episodi sono ormai tanti: sostanziali liti (leggi qui), che spesso partano da una semplice fan page su Facebook, come nel caso Nestle (leggi qui). E poi ci sono i casi di Groupalia, che ha provato in diretta che cosa significa essere spiritosi sul terremoto, con il tweet “Paura del terremoto? Andiamo a Santo Domingo!” che ha scatenato la rete (leggi qui). Situazione simile per Prenotable (leggi qui) e Brux Sport (leggi qui). O quello più recente di Rtl 102.5, che invece di replicare ha provveduto a cancellare tutti i messaggi che chiedevano se l’azienda per cui stavano dando spazio pubblicitario non avesse delocalizzato in Serbia (leggi qui).

Si fa presto a dire social

Insomma, i rischi ci sono. Non solo quelli più evidenti e manifesti di una rissa in rete, ma anche quelli di sentirsi dire che non si usa a pieno il sistema o che si inibisce la risposta. Perché diciamocelo nel web 2.0 quello che fa la differenza è questa apertura al confronto, al discorso a più voci. Ora se si è su Twitter ma si è mandato un solo tweet, oppure se non si ammettono commenti su Facebook, una reazione si può aspettare che arrivi.
Oltre a social trend, è facile imbattersi in corsi e seminari, che chiariscono come esserci. Ed in rete è facile trovare veri e propri decaloghi e lezioni fai da te sul social media marketing.
Perché oltre ai rischi, all’essere costantemente sotto osservazione, al dover manifestare una vitalità costante, può anche accadere che i social media non funzionino per un brand. Sono almeno 7 le domande che è bene farsi prima di partire con una campagna social. Lo dice Jay Denhart (leggi qui), che sul web è ben presente e ripreso (leggi qui). Eccole di seguito.
  • Abbiamo qualcosa di interessante da dire? Do we have anything to say? Che significa aver presente che cosa interessa i propri fan, follower e acquirenti, non solo che cosa è importante dal nostro punto di vista.
  • Conosciamo che cosa colpisce l’attenzione dei nostri fan? Do we know what content turns on our fans?
  • I nostri contenuti sono davvero social? Is our content really social?. Qualcosa importante solo per noi non è social, oppure se tutti i contenuti sono solo diretti a ripetere le caratteristiche positive del prodotto ben presto parleremo da soli.
  • Il nostro brand ha una personalità? Does our Brand have a personality?
  • Siamo pronti a prendere botte quando ce le meritiamo e anche quando non ce le meritiamo? Are we willing to get a few knocks on the head when we deserve them (and sometimes when we don’t)? La caratteristica del social network è quella di aprire un canale di comunicazione orizzontale, di essere quindi disposti ad ascoltare, a mettersi in gioco, che non vuol dire non poter replicare ma darsi una linea e farlo secondo modalità che riconoscano il valore dell’altro.
  • Siamo pronti a rispondere? Are we staffed and set up to respond? E questo sia in termini di persone che di organizzazione. Se ci vogliono due settimane per una risposta non si può dire di essere pronti.
  • Sappiamo riconoscere quando l’obiettivo è raggiunto? Do we know what success looks like? Se si va su di un nuovo canale senza sapere che cosa si vuol raggiungere, il progetto verrà tagliato appena i tempi si fanno difficili.
  • Tre cose da tener in conto

    Anche senza arrivare alla accuratezza di Jay Denhart e con la flessibilità che può essere utile per essere social in via sperimentale, una rete di protezione può essere utile.
    1.L’importante è pensarci. Avere un obiettivo perseguibile è necessario anche se si concretizza solo in una prova sperimentale. Esserci senza un progetto è nulla.
    2.Limitare i rischi riduce le opportunità. Come pure ampliare le opportunità aumenta i rischi.
    3.Partecipare conta, nel senso che prepararsi ha il suo peso e non fermarsi fa la differenza, anche appoggiandosi a chi nella rete vive e lavora. Perché siamo animali sociali, oltre che social.
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