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19 Aprile 2024 / 06:41
Università + crowdfunding: un modello di start-up da esportazione

 
Fintech

Università + crowdfunding: un modello di start-up da esportazione

di Mattia, Schieppati - 20 Maggio 2014
Nasce dall'ateneo molisano PharmaGo, un'impresa biotech per lo sviluppo di farmaci antitumorali che ha scelto - tra le prime in Italia - l'equity crowdfunding per il reperimento di capitali sulla piattaforma StarsUp. Una risposta creativa alle esigenze del mercato italiano ...
E' partita da pochi giorni PharmaGo, il modello di impresa che, caso non comune nel panorama italiano, sta crescendo seguendo tre vie di innovazione. Un'innovazione di forma, perché è una start-up che vede come capofila d'impresa un ateneo, l'Università degli Studi del Molise, e ha saputo coinvolgere una realtà privata d'alto profilo nel suo settore: Invent srl, società di seed capital partecipata da Innova Spa. Innovazione di sostanza, perché questo spin-off universitario si muove su un settore di frontiera come quello delle biotecnologie farmaceutiche (il mercato del biotech ha macinato, nel 2013, fatturati per circa 70 miliardi di dollari). E ha scelto una via innovativa anche per cercare sul mercato dei capitali le risorse per crescere e svilupparsi. Rivolgendosi al mercato ancora embrionale, non solo in Italia, dell'equity crowdfunding. Quella forma di partecipazione azionaria diffusa, sdoganata dal Decreto Sviluppo 2.0 dell'allora ministro Corrado Passera e tradotta in formula operativa dalla Consob, prima tra le authority mondiali a emettere un regolamento in merito, anticipando addirittura la Sec statunitense - e che si basa sulla raccolta di piccole quote di partecipazione attraverso piattaforme online "aperte" alla folla (crowd) di investitori; PharmaGo ha scelto StarsUp, la prima piattaforma autorizza dalla Consob. Uno strumento finanziario ancora quasi per nulla battuto ma che potrebbe rappresentare una strada interessante per le start-up appunto che faticano a trovare ascolto sul "normale" mercato dei capitali.
Il perché di questa scelta lo spiega Antonio Minguzzi, che presso l'Università del Molise è associato di Economia e gestione delle imprese e di Finanza aziendale, che ha la responsabilità manageriale di PharmaGo.

Siete una delle prime start-up innovative italiane a imboccare la strada dell'equity crowdfunding. Muoversi da pionieri rappresenta un vantaggio competitivo o si rischia di più?

E’ un dubbio che abbiamo avuto e rispetto al quale non esiste una risposta certa. Le necessità contingenti ci hanno comunque spinto a proporci subito ma credo che i pionieri affrontino dei rischi non irrilevanti. Speriamo che l’essere tra i primi ci offra una visibilità utile in futuro. Ma vedo due rischi: la scarsa conoscenza dello strumento da parte degli investitori e la complessità delle procedure di investimento. Abbiamo infatti di fronte un mercato di potenziali investitori a cui è necessario spiegare cosa sia il crowdfunding prima ancora di convincerli ad investire. I nostri sforzi di comunicazione sono quindi doppi rispetto a quelli che sosterranno le aziende che si proporranno nel futuro. Inoltre la procedura che attualmente deve seguire un investitore non è certo nata tenendo conto dell’esistenza del crowdfunding e quindi rischia a mio avviso di essere troppo complicata e scoraggiare i piccoli investimenti “soprasoglia” che sono obbligati alla procedura Mifid. Se lo strumento prende piede forse tali procedure potranno essere ottimizzate e semplificate.

L'Italia, con il decreto start-up prima e poi con la regolamentazione Consob, è stata tra le prime nazioni a rendere operativa la possibilità di equity crowdfunding, ormai da oltre un anno. Sono però ancora pochissime sia le piattaforme attive sia le start-up che entrano in questo mercato. A cosa è dovuta secondo lei questa cautela?

Le informazioni aggiornate in tempo reale sul sito StarsUp sul crowdfunding lanciato per PharmaGo
Credo si tratti di un mix tra situazioni congiunturali e cultura imprenditoriale. Avviare una piattaforma è un’iniziativa imprenditoriale che bisogna saper cogliere e sviluppare. Conosco il mercato delle nuove imprese e posso dire che i soci di StarsUp hanno avuto il coraggio di avviarsi tra i primi ma non credo sia facile perché si tratta di un nuovo mestiere. Avendoli conosciuti abbastanza bene in questi mesi devo dire che emerge il fatto che “ci credono”. Nel loro vissuto c’è la competenza e l’esperienza per valutare adeguatamente le proposte che gli arrivano. Evidentemente nel sistema non è facile comporre questi ingredienti partendo da zero. E mi sembra ancora ben lontano il vedere un mercato efficiente per valutare e avviare le proposte in campo “sociale” e del terzo settore.

Nell'ultimo anno e mezzo pare che l'unico sbocco per i giovani sia quello di farsi una start-up, meglio se in qualche ambito tecnologico. La start-up è la panacea di tutto?

Le nuove imprese non sono certo la soluzione a tutti i problemi ma è un bene che vengano incentivate. Dalla mia posizione universitaria ed a volte di consulente vedo una grande ricchezza di competenze, idee ed entusiasmo. Le nuove iniziative nel campo dell’economia digitale o le intelligenti proposte di supporto ai settori tradizionali del made in Italy possono essere importanti. Nello stesso tempo non credo basti essere giovani per avviare con successo una start-up. Anzi.

Quali devono essere secondo lei le condizioni di fattibilità che qualsiasi idea di start-up dovrebbe verificare prima di provare davvero a tradursi in impresa?

Le condizioni indispensabili per partire devono essere quelle del prodotto/servizio innovativo e il capitale umano adeguato a rendere l’innovazione un prodotto. Ciò significa un mix di conoscenze, esperienze, motivazioni e capacità di analisi e di interpretazione dell’ambiente economico. Dall’altro lato c’è la gestione del cash flow. Le iniziative che hanno un break even temporale non breve rischiano quasi sempre di andare in crisi per il problema della liquidità.

Qual è il suo giudizio sul mercato italiano del venture capital?

Migliorato ma non ancora maturo. Conosco diverse realtà e ho sempre incontrato persone di elevata qualità professionale ma vedo due limiti significativi. Uno è quello del segmento seed che viene dichiarato come area di intervento da alcuni ma poi in realtà, a mio avviso, non realizzato. L’altro è il problema dell’inquadramento territoriale che penalizza ancora fortemente e immeritatamente il Mezzogiorno. Ho visto finalmente muoversi il sistema dei business angel e mi sembra che nessuno si ponga come obiettivo di intervento prioritario gli spin-off universitari dove credo ci sia il “tesoro da scoprire” della tecnologia del paese. Nel biotech, il nostro settore, gli operatori nazionali si muovono solo su situazioni più consolidate della nostra. Il primo venture capitalist statunitense specializzato in biotech ha realizzato lo scorso anno 40 investimenti, quasi uno a settimana. Negli ultimi tempi sono cresciute molto le iniziative che nascono dal pubblico come le regioni o i bandi ministeriali. Quindi mi auguro che il mercato del venture capital italiano si arricchisca di nuovi operatori che si specializzino maggiormente rispetto ai possibili target di mercato. Per le start-up sarebbe un bene avere di fronte un sistema finanziario più composito nelle diverse offerte.

Veniamo a PharmaGo. Qual è stata la miscela che ha reso possibile la nascita di una realtà imprenditoriale così interessante in un settore dalle enormi potenzialità e per di più in un territorio "periferico"?

Stefano Iacobelli, medico chirurgo e responsabile scientifico di PharmaGo
PharmaGo è una realtà basata sull’eccellenza della ricerca italiana, in questo caso rappresentata dal professore Iacobelli e dalla sua trentennale attività scientifica. La miscela poi si basa sulla mutata cultura accademica che per fortuna oggi considera la valorizzazione commerciale della ricerca (gli spin-off accademici) come un’opportunità e non come un’eresia. Quando ho iniziato la mia attività di ricercatore non era così. Forse nelle università piccole e periferiche questi processi di innovazione sono stati più efficienti e veloci. Certamente sia nell’Università di Chieti che nell’Università del Molise c’è stata reale sensibilità e supporto per la creazione degli spin-off. La collaborazione con Invent srl, il nostro socio privato, è stata indispensabile per la nascita delle attività e oggi svolge una continua e difficile azione di raccordo tra pubblico e privato. Nel 2010 la partecipazione a un bando della Regione Molise ci ha consentito di vincere il finanziamento che finiremo di consumare entro il maggio 2015. Credo quindi che la miscela sia la sintesi di competenze umane e sensibilità istituzionali. Io amo dire che la cultura accademica deve integrarsi con quella di mercato. Quando questo non accade anche le iniziative basate sulla tecnologia più innovativa falliscono senza scampo. Mi fa piacere però smentire in questo caso l’eventuale preconcetto sui territori periferici. Il settore della ricerca oncologica è internazionale, il mercato dei prodotti è mondiale. Purtroppo le fasi seed ed early stage invece dipendono molto dai contesti locali e quindi non sempre è facile iniziare. A noi per adesso è riuscito e credo che siano nostri punti di forza la competenza scientifica di tutto il team e l’ottimo spirito di collaborazione che abbiamo costruito. E per la governance amministrativo/procedurale e strategico/finanziaria anche le lauree in economia sono ingredienti indispensabili della miscela.

Rispetto alla fragilità di tanti progetti start-up italiani, il vostro sembra un piccolo miracolo. Qual è stata la difficoltà principale agli inizi di questa avventura?

Prima di parlare di miracolo aspettiamo di aver terminato con successo l’iniziativa di crowdfunding. Siamo ancora esposti alle difficoltà di un cash flow troppo dipendente dai progetti di ricerca che sono sempre difficili da vincere e complicati da gestire. La complessità delle procedure amministrative è una criticità poco visibile dall’esterno ma molto rilevante per noi. Per arrivare ad essere presenti sul portale di StarsUp abbiamo dovuto passare l’approvazione di sei organi collegiali in due mesi tra quelli universitari e quelli di PharmaGo. I regolamenti amministrativi dell’Università non sono stati scritti per governare una srl. Io quindi devo essere bravo a “tradurre” culture e linguaggi diversi in un sistema che proceda con una certa unitarietà verso l’obiettivo comune. Noi siamo sicuri di avere un buon prodotto scientifico.

PharmaGo rappresenta un interessante esperimento di copartecipazione tra pubblico e privato che si apre al mercato attraverso il crowdfunding. Avete guardato a un qualche modello, magari statunitense, per costruire questo meccanismo così innovativo?

No e non credo che ci sia in Italia un modello di successo consolidato da imitare. Esempi di successo statunitensi devono molto al loro contesto più maturo e veloce negli sviluppi e quindi non sono imitabili come tali. Credo che l’elemento fondamentale di quanto ha realizzato sin ora PharmaGo sia la qualità del capitale umano. La competenza scientifica dei ricercatori, l’intelligenza strategica del nostro socio privato e quella istituzionale dei vertici dell’Ateneo e la selezione dei giovani migliori dei nostri corsi. Anch’io sono stato selezionato per contribuire a gestire l’azienda perché fino a ieri non ne ero socio. Sono stato però il primo a richiedere l’acquisto con il crowdfunding e la vera innovazione credo sia costituita dalla possibilità di coinvolgere in questo modo i nostri tre dipendenti nel meccanismo di premialità finanziaria legata ai risultati di mercato che spero metteremo a punto durante l’anno. Una delle nostre giovani e ipertitolate ricercatrici mi ha bloccato in un angolo a fine gennaio e mi ha spiegato di cosa si trattava insistendo per provarci. Il giorno dopo abbiamo contattato StarsUp.

Crede che se PharmaGo fosse nata nella Silicon Valley anziché in Molise avrebbe maggiori o minori possibilità di pensare in grande?

Non c’è dubbio che gli Usa offrono condizioni di contesto decisamente migliori. Un recente viaggio in America di un nostro socio ha consolidato la nostra certezza. Dai suoi colloqui è emerso che PharmaGo (con il portafoglio di brevetti dei soci) potrebbe valere circa 12 milioni di dollari ad oggi. La nostra iniziativa di crowdfunding si basa su una valutazione del valore dell’azienda di un milione di euro.

Qual è il vostro prossimo step?

Contiamo di registrare un brevetto molto innovativo prima dell’estate e di avviare in Molise o in Abruzzo, entro fine anno, il primo stabilimento italiano in grado di fornire tutti quei servizi che accompagnano la produzione di biofarmaceutici durante le tappe fondamentali dello sviluppo preclinico in condizioni GMP (ndr - Good Manufacturing Practice). Lavoriamo per partecipare ai bandi di Horizon 2020 che richiedono una preparazione molto impegnativa. Stiamo già organizzando un viaggio in ottobre a San Francisco per una serie di incontri con alcuni venture capitalist. Vorrei che il 2015 fosse l’anno in cui iniziamo a valorizzare sul mercato gli importanti sforzi di ricerca compiuti dal team scientifico negli anni passati. Nel prossimo triennio puntiamo a una intensa crescita nazionale e internazionale che ci farà occupare molti giovani scienziati. Diventeremo un azienda con dei crescenti contenuti industriali e non solo basata sulle attività di ricerca. Reincontriamoci nell’estate del 2017 e vediamo se ci siamo riusciti.
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